Domenica 23 Ottobre | Commento al Vangelo

Commento al Vangelo

Domenica 23 Ottobre

Liturgia: Sir 35, 15-17.20-22; Sal 33; 2Tm 4, 6-8.16-18; Lc 18, 9-14Domenica 23 OttobreIn quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Nelle parabole precedenti si chiedevano cose (Lazzaro chiedeva di mangiare, la vedova chiedeva giustizia, i 10 lebbrosi chiedevano la guarigione); in questa il pubblicano chiede la remissione dei suoi peccati, che è la cosa essenziale; la sua preghiera è silenziosa perché sa che il Signore ascolta. Prima ancora, nel capitolo 15, Luca aveva raccolto le parabole della misericordia (la 99esima pecora, la moneta smarrita, il ritorno del figlio prodigo). Tutto è unito dal grande tema della fede – insieme all’insegnamento sulla preghiera – che mostra il rapporto giusto tra noi e Dio. Al contrario, c’è del demoniaco nell’accusa del fariseo che si esalta aggredendo l’altro che è più povero.

Due tipi di fede a confronto. Il fariseo è grossolano: parte bene ringraziando Dio, ma conclude male perché attribuisce tutto il merito a se stesso. Il fariseo non parla con Dio, ma con se stesso, non ha bisogno di nulla, si percepisce già salvato, giustificato. Il pubblicano, invece, tocca il cuore perché, quasi nascosto e umiliato nello sguardo e nel silenzio, confessa la propria miseria, non si ritiene degno di niente, ma ha fede nella misericordia di Dio.

Il fariseo fa tutto quello che deve fare, anche più di quanto è richiesto (due digiuni la settimana, invece di uno al mese; paga la decima di quello che acquista, mentre era riservata al produttore). Non rende grazie per il dono di Dio, ma per quello che lui ha fatto per Dio. Il soggetto della sua preghiera non è Dio, ma l'io. La sua è una preghiera atea. Si condanna alla solitudine nel momento stesso in cui si confronta – giudicandolo! – con il pubblicano, invece di rapportarsi con Dio. Più che alzare gli occhi al cielo, guarda dall’alto in basso chi gli sta accanto/dietro. Il pubblicano, invece è guardato da Dio perché il suo sguardo è verso il basso, perché si sente nulla e bisognoso di perdono. Il pubblicano fa la sola preghiera efficace: “Signore, io sono niente e tu sei tutto”.

Quando si dice “la Chiesa dei poveri”, si afferma che essa lo è non solo perché è la soccorritrice e la madre dei poveri, ma prima di tutto perché essa stessa è fatta “di” poveri, dove la miseria è innanzitutto la condizione dell’umanità che ha bisogno di essere salvata. Questa è la consapevolezza che fa la differenza fra il pubblicano e il fariseo. La preghiera del pubblicano, “O Dio, abbi pietà di me peccatore”, è drammaticamente e straordinariamente concreta perché egli ha veramente bisogno di essere salvato.

Meravigliosa chiusura: il peccatore torna a casa sua giustificato, in vera comunione con Dio, arricchito da quella povertà che ci mette nelle mani misericordiose del Signore.Mons Angelo Sceppacerca23 ottobre 2016
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