Domenica 13 Novembre | Commento al Vangelo

Commento al Vangelo

Domenica 13 Novembre

Liturgia: Pro 31, 10-13.19-20.30-31; Sal 127; 1Ts 5, 1-6; Mt 25, 14-30Domenica 13 Novembre Il talento non era una moneta, ma solo una unità di conto. Non si poteva coniare una moneta di quasi 27 chilogrammi! Indicava, in ogni caso, un valore molto grande, come enorme è il tesoro lasciatoci da Gesù. A chi più, a chi meno, nessuno escluso: popoli, culture, terre, religioni. Quello che importa è che il servo corra “subito ad impiegarlo” perché il talento ha in se stesso potenza ed efficacia. Il talento è il Vangelo, il Signore del Vangelo. Il talento è l’amore di Dio, è Dio stesso che ci ama e ci fa capaci di amore, la sola potenza in grado di salvare questo mondo. Se il talento è l’amore, il male è nasconderlo, oscurarlo, sottrarlo allo scambio.

L’immagine dei talenti indica una vita impegnata a moltiplicare il dono che ci viene consegnato. Proprio questa consegna richiama la piena responsabilità che ognuno ha del dono ricevuto allo scopo – finale – di “entrare nella gioia del tuo padrone”: entrare nel regno di Dio è entrare nella gioia! Alla piccola fedeltà dei servi corrisponde la grande gioia della vita nel regno di Dio.

Il regno dei cieli è un tesoro che Dio ha messo nelle nostre mani; il nostro rapporto con Lui è il rovescio del timore servile che cerca rifugio contro Dio stesso in una sterile osservanza dei suoi comandamenti. Se il dono è l’amore, l’amore è anche il contraccambio, è il vangelo tradotto in opere e giorni, con generosità e libertà. Se il vangelo non passa da vita a vita, da cuore a cuore, resta sterile. Il dono dei talenti che Dio ci ha dato è un atto di fiducia nelle nostre capacità e nella nostra volontà. Senza mai arrendersi, sull’esempio del Signore che è capace persino di mietere dove non aveva seminato e raccogliere dove non aveva sparso: Dio sa trarre il bene anche dal male e vuole che i suoi servi siano come lui.

Il premio, espresso nel raddoppio dei talenti e nella partecipazione alla gioia del Signore, richiama la comunione di vita con Cristo. La pena è l’esclusione da questa intimità. Fuori dalla sala delle nozze c’è la condanna all’oscurità, al freddo, al pianto.

La paura è il contrario della fede come la pigrizia lo è dell’impegno. Anche l’immagine di Dio è deformata dalla paura che paralizza l’iniziativa dell’uomo e gli impedisce di darsi da fare, nel presente, con costanza e buona volontà, sapendo anche ricominciare dopo gli errori e i fallimenti. La vita non ci è stata donata per non fare del male, ma per fare il bene.

Papa Benedetto XVI così ha commentato proprio questo vangelo: “L’uomo della parabola rappresenta Cristo stesso, i servi sono i discepoli e i talenti sono i doni che Gesù affida loro. Perciò tali doni, oltre alle qualità naturali, rappresentano le ricchezze che il Signore Gesù ci ha lasciato in eredità, perché le facciamo fruttificare: la sua Parola, depositata nel santo Vangelo; il Battesimo, che ci rinnova nello Spirito Santo; la preghiera – il “Padre nostro” – che eleviamo a Dio come figli uniti nel Figlio; il suo perdono, che ha comandato di portare a tutti; il sacramento del suo Corpo immolato e del suo Sangue versato. In una parola: il Regno di Dio, che è Lui stesso, presente e vivo in mezzo a noi. Questo è il tesoro che Gesù ha affidato ai suoi amici, al termine della sua breve esistenza terrena... Ciò che Cristo ci ha donato si moltiplica donandolo! E’ un tesoro fatto per essere speso, investito, condiviso con tutti

Mons Angelo Sceppacerca13 novembre 2011
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