Commento al Vangelo
22 aprile - Quarta di Pasqua
Liturgia: At 4, 8-12; Sal 117; 1Gv 3, 1-2; Gv 10, 11-18In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Dopo la guarigione del cieco dalla nascita, che ha provocato la dura opposizione dei farisei, Gesù parla di se stesso come del “buon pastore”. Ai farisei ciechi, che pretendevano di essere le guide del popolo, Gesù mostra la loro cecità e propone se stesso come il vero pastore che conduce verso la libertà i suoi fratelli. Sullo sfondo del discorso di Gesù c’è un’immagine familiare in Palestina: a tutti era chiaro il rapporto particolare che c’è tra gregge e pastore, figura di quello tra re e popolo, simile a quello tra Dio e i suoi fedeli. E’ l’antica figura del re pastore, di Dio stesso come pastore. Anche Abramo e i patriarchi erano pastori; Mosè, Giosuè e Davide sono chiamati pastori del popolo, che loro guidano in nome di Dio. La vita del pastore si spiega con quella delle pecore e la vita delle pecore dipende da quella del pastore.
Questo racconto è una similitudine in senso stretto, una specie di allegoria perché ad ogni elemento raffigurato ne corrisponde uno che riguarda la realtà spirituale suggerita. In una parabola che parla di pecore e pastori, le pecore sono pecore e i pastori sono pastori. Se invece il racconto è allegoria le pecore e il pastore rappresentano qual cos'altro. Il pastore è il Messìa; le pecore sono i fedeli; il recinto indica l'atrio del Tempio di Gerusalemme. Il guardiano del recinto è il Levita che sta alla porta del tempio e che custodisce l'ingresso al Tempio e chi entra non approvato dal sacerdote-custode è un ladro e un brigante (si riferisce ai falsi messìa che abbondavano e istigavano le pecore a rivolta in nome della salvezza). Giovanni scrive questo Vangelo dopo la distruzione di Gerusalemme ad opera dei Romani; e la distruzione avvenne proprio perché alcuni, proclamandosi messìa, incitarono il popolo alla ribellione.
Per la maggior parte di noi, oggi, è desueta e poco gradita l’immagine dell’uomo-pecora, che segue un pastore, perché l’uomo si percepisce come essere libero. Eppure, al di là della nostra sensibilità in materia di immagini di noi stessi, gli spazi lasciati alla nostra libertà sono sempre più ridotti. I mezzi di comunicazione, tanto per citare alcune delle nuove “guide”, impongono veri e propri modelli culturali e comportamentali, limitando di fatto la libertà. I “modelli” sono i nuovi pastori, che tutti, come un gregge, desideriamo seguire e raggiungere, mentre ne restiamo eternamente sudditi inquieti e mai appagati.
Gesù propone un modello alternativo, decisamente. Ciò che dobbiamo imitare non sono i desideri degli altri – con i conflitti che ne seguono – ma quelli del Padre, che non è rivale di nessuno. Proprio Gesù, che è il Figlio che conosce l’amore del Padre, si propone come il vero pastore, il pastore-bello alla cui sequela diventiamo ciò che siamo: figli del Padre e fratelli fra di noi. Ai falsi pastori che diffondono la cultura dell’aggressione, della competizione, della rivalità e della violenza, Gesù oppone la sua persona di pastore che porta la cultura della fraternità e dell’amore. Solo così, finalmente, anche la nostra vita potrà essere libera e dunque bella.
Così scriveva il cardinale Jean-Marie Lustiger, arcivescovo di Parigi: “Noi siamo oggi sottoposti alla prova di un paganesimo che opera nelle coscienze di coloro che furono o che sono cristiani ma per i quali Dio rimane una domanda, invece di donare alla loro vita un significato. Non una crisi della Chiesa… si sbagliano coloro che lo pensano. Poiché noi siamo davanti alla crisi di fede di un popolo”.
Mons Angelo Sceppacerca22 aprile 2018