Domenica 11 maggio - Quarta di Pasqua | Commento al Vangelo

Commento al Vangelo

Domenica 11 maggio - Quarta di Pasqua

Liturgia: At 13, 14.43-52; Sal 99; Ap 7, 9.14b-17; Gv 10, 27-30Domenica 11 maggio - Quarta di Pasqua

Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Noi siamo tra quelle pecore! Questa è la consolazione più grande: essere riconosciuti da Gesù e collocati fra coloro che lo ascoltano, lo seguono e che per questo ricevono da lui vita eterna e assoluta protezione. Null'altro serve e non lo si deve a nostro merito o nostra partecipazione al mistero della fede. Tutto è grazia e dobbiamo riconoscere il dono del Signore per non peccare di ingratitudine e orgoglio.

È il figlio di Dio a dirlo: "Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno". E rafforza la promessa chiamando il Padre a garante: "Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre". Ci inchiniamo, con fede, dinanzi all'onnipotenza della misericordia di Dio. E portiamo lo sguardo nel fondo del segreto di tutto: "Io e il Padre siamo una cosa sola". Da questa luce sulla Trinità, irradia il desiderio ultimo di Gesù, lasciato ai suoi come testamento: "Che tutti siano uno". La fraternità universale non è utopia perché nasce dall'intimo di Dio che è Padre di tutti. Un solo Dio, padre, e tutti fratelli. Tutto il vangelo è qui.

Sullo sfondo delle parole di Gesù c'è il Tempio di Gerusalemme. Quello "nuovo" è il "corpo" di Gesù e il nuovo culto è l'adorazione al Padre "in Spirito e verità". Nel tempio Gesù aveva guarito il paralitico e perdonato l'adultera. Gesù che "passeggia" nel tempio è immagine della comunione/unità del Padre e del Figlio, nella quale noi troviamo la guarigione del perdono perché siamo le sue "pecore", che nessuno può strappare dalle sue mani.

Noi siamo custoditi nelle mani del Signore, come agnelli sulle spalle del pastore bello. Questo è motivo di gioia profonda e abbondante, nonostante le miserie, le debolezze e le crisi. Il grande dono è custodito nel cuore stesso di Dio, là dove Gesù e il Padre sono una sola cosa e noi in loro.

Ognuno di noi è unico, inconfondibile, perché prima ancora è unico il Pastore. Possiamo seguirlo, perché conosciamo la sua voce, diversa da quella di qualsiasi altro. Noi crediamo che uno solo è il volto di Dio. E perché questo secolo è povero di fede, la misericordia ha lasciato anche un segno consolante e strepitoso: la sindone di Torino. Quel volto! Se non Lui, chi?

Ogni vocazione di speciale consacrazione nasce da quel rapporto personale di conoscenza e di amore fra il pastore e le "sue pecore", quelle che scelgono di mettersi sulle sue spalle, vivendo lo stesso rapporto di comunione e di unità che c'è fra il Padre e il Figlio. È questa vita che fa, di ogni consacrato un discepolo gioioso, un "altro Gesù".

E Gesù resta il vero pastore, l'opposto del mercenario che è pagato, sfrutta e strumentalizza le pecore. Il vero pastore dà la vita per esse, non le domina, le serve, le conosce per nome, ciascuna è importante, unica ai suoi occhi.

Se si vuole conoscere un altro segno evidente del buon pastore, si può salire a La Verna, sul monte dove Francesco ricevette il segno delle stimmate per divenire lui stesso una sindone vivente, uguale al crocifisso, al più bello tra i figli dell'uomo, al pastore buono che raduna le pecore, ritrovandole una ad una, capace perfino di trasformare in agnelli quelli che non lo sono: i lupi, i briganti, gli assassini, i traditori, i lontani che più lontani non si può dal recinto e dalla casa del Padre. E in croce Francesco compie l'opera del grande Sacerdote, il mediatore fra il cielo e la terra; come lui ha le mani inchiodate, è sospeso fra cielo e terra e grida l'oscurità e il silenzio del cielo su una terra dove s'è fatto buio.

Preti di ieri e di oggi, come don Andrea Santoro, ucciso in Turchia anni fa e che ha lasciato tracce del suo essere discepolo di Cristo buon pastore, alla ricerca della pecora perduta, nelle donne svilite nella dignità, sottomesse al dispotismo del padrone di turno. "Ho visto lo spettacolo squallido ed amaro di una zona piena di prostitute e di hotel posticci trasformati in case di appuntamento" scrisse in una lettera al rientro da un primo viaggio nell'antica Trebisonda. "Ci si prostituisce per un piatto di minestra. Le donne vendono la propria dignità, gli uomini comprano la propria vergogna".

Se qualcuno accetta di scendere nella spaccatura, vedrà tornare anche la colomba e le immagini dell'amore ineffabile. Torna lo Sposo-pastore. Ora, finalmente, non è più notte. La sposa lo riconosce e può dire: "la sua sinistra è sotto il mio capo, e la sua destra mi abbraccia".

Mons Angelo Sceppacerca11 maggio 2025
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