Ordinazione Diaconale dei Frati Minori Cappuccini Francesco Bottalico, Giovanni Cinefra, Italo Santagostino, Sergio Tagliente | Diocesi di Trivento

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Ordinazione Diaconale dei Frati Minori Cappuccini Francesco Bottalico, Giovanni Cinefra, Italo Santagostino, Sergio Tagliente

Ordinazione Diaconale dei Frati Minori Cappuccini Francesco Bottalico, Giovanni Cinefra, Italo Santagostino, Sergio Tagliente

Sabato 1°ottobre, alle ore 18,00, nella Basilica Pontificia Minore di S. Fara in Bari, durante la solenne Concelebrazione Eucaristica presieduta da S. Ecc. Mons. Claudio Palumbo, Vescovo di Trivento, hanno ricevuto l'Ordine del Diaconato quattro frati al termine dei loro studi teologici. Tra questi frati, due appartengono alla nostra Provincia religiosa: fr. Italo Santagostino e fr. Francesco Bottalico. Erano presenti il ministro provinciale fr. Maurizio Placentino, il vicario fr. Francesco Dileo, i consiglieri fr. Aldo Broccato e fr. Matteo Lecce, altri confratelli giunti da San Giovanni Rotondo, Campobasso, Venafro, Isernia, Montefusco, Foggia-Immacolata e Vico del Gargano. Numerosa la partecipazione dei fedeli, amici e parenti giunti dai rispettivi paesi di origine dei festeggiati.

Omelia del Vescovo Claudio per la Ordinazione Diaconale dei Frati Minori Cappuccini Francesco Bottalico, Giovanni Cinefra, Italo Santagostino, Sergio Tagliente

Reverendissimi Padri Provinciali, Superiori, Formatori, Confratelli, Familiari, amici e conoscenti dei Frati Francesco, Giovanni, Italo e Sergio, carissimi Sacerdoti, Religiosi e Religiose, Fratelli e Sorelle, nel contesto festoso di questa Domenica XXVII del Tempo Ordinario, Pasqua settimanale del Popolo di Dio, e ormai alla vigilia della festività/solennità di San Francesco di Assisi, condividiamo reciprocamente la gioia del dono di questi Fratelli che, tra qualche istante, verranno ordinati Diaconi, e così si aprirà una nuova dimensione "per" e "nella" loro vita, già arricchita dalla professione religiosa emessa nella Famiglia francescana cappuccina, sulle orme del Poverello di Assisi, "araldo del gran Re", "giullare di Dio" e "diacono", appunto. Sì. Le Fonti Francescane, portano la testimonianza scritta che San Francesco era diacono (Cf FF, nn.470, 814, 111474, 1537). Vi sono anche fonti iconografiche in cui Francesco appare con il segno proprio e la veste liturgica del diacono: il libro del Vangelo e la dalmatica.  La scelta "minore" di Francesco di rimanere diacono, profetica per l'esperienza ecclesiale e per la spiritualità del suo tempo, era in linea con le dimensioni ecclesiali del diaconato delle origini e ridonava ad esso l'antica forma spirituale della vocazione al servizio e della carità operante riscoperta in pienezza dal Concilio Vaticano II: «In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani non per il sacerdozio, ma per il servizio. Infatti, sostenuti dalla grazia sacramentale, nella diaconia della liturgia, della predicazione e della carità servono il popolo di Dio, in comunione col vescovo e col suo presbiterio»(LG III, 29).

Come sapete, carissimi, il diaconato costituisce il primo grado del sacramento dell'Ordine che segna ontologicamente colui che lo riceve. Non si tratta di una istituzione, perché uno non "fa" il diacono, ma "è" diacono. Il diacono è configurato a Cristo servo, il quale, per adoperare una espressione di san Policarpo di Smirne, «si è fatto diacono di tutti» (Cf Ep. ad Philippenses, 5, 2). Cristo infatti «svuotò se stesso assumendo una condizione di servo» (Fil 2,7), e ha detto di sé «Ecco io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27);  e ancora: «Non sono venuto per essere servito ma per servire» (Mc 10, 43-45). Il diacono, è presenza sacramentale del Cristo servo e, per questo, a lui sono imposte le mani «non per il sacerdozio, ma per il servizio».

Per comprendere il diaconato, allora, non bisogna partire da ciò che "fa" il diacono (si faccia attenzione all'inganno funzionalistico neopelagiano!). Egli può fare bene delle cose, diverse a seconda dei carismi personali, i bisogni della missione, le tappe della vita. Bisogna invece partire da ciò che egli "è", ossia presenza sacramentale (repraesentatio, ripresentazione storica, incarnata) di Cristo servo. Detto altrimenti, il diacono non sarà più servizievole degli altri o più generoso, o più disponibile. Quando ci si pone unicamente sul piano del fare, allora ci si colloca su questioni di organizzazione dell'aspetto religioso, rischiando di cadere nell'autoreferenzialità e nel pelagianesimo di ritorno, mali che originano quella "mondanità spirituale" la quale, come ci avverte preoccupato il Santo Padre Francesco, distrugge dall'interno la vita cristiana, ecclesiale e religiosa. Ma la Chiesa non è un sistema organizzativo del religioso. Essa è mistero di amore voluto da Dio per la salvezza del mondo. Bisogna perciò assumere la categoria del "mistero" per andare al cuore stesso di ciò che è la Chiesa. Il Concilio Ecumenico Vaticano II, fin dall'inizio della Costituzione dommatica Lumen Gentium, insiste molto sulla Chiesa come sacramento di salvezza «segno e strumento dell'intima comunione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (LG 1).

Lungi dall'essere un super laico, o un sotto prete, il diacono manifesta nel cuore del mondo e in mezzo a noi l'immagine vivente del Cristo servo. Egli, il diacono, serve la comunità attraverso la diaconia della liturgia, della parola e della carità. Tutti noi siamo servi per costituzione "agapica", quali che siano le diverse funzioni, gli incarichi e le responsabilità a noi affidate. Quale che sia il nostro ministero, noi tutti non siamo che dei servitori. In forza della loro presenza in mezzo a noi – e siamo loro grati per questo - i diaconi ci ricordano tale fondamentale verità: noi non siamo altro che dei servitori e tali dobbiamo sempre intenderci e rimanere. Servi, e nulla più.  Lo abbiamo appena sentito da Gesù nel Vangelo appena proclamato: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).

Servitori della Parola di Dio. Cari, Francesco, Giovanni, Italo e Sergio, oggi, per prima cosa, voglio invitarVi a vivere nella familiarità – insisto su questo termine - con la Parola di Dio. Non è sufficiente conoscerne l'aspetto linguistico o esegetico, cosa peraltro necessaria, ma bisogna che la Parola entri nel Vostro cuore, penetri nel fondo dei Vostri pensieri e dei Vostri sentimenti perché Voi veniate attraversati dal pensiero del Cristo – e non dal Vostro - e possiate proclamarlo agli altri. Quando, fra poco, riceverete nelle mani il Santo Libro del Vangelo, ricordate quello che San Gregorio magno ci diceva durante le lezioni di Storia della Chiesa a Campobasso: Divina eloquia cum legente crescunt (Cf Hom. in Ezechielem, 1,7,8), e quella domanda all'amico Teodoro, medico personale dell' imperatore, credente sì, ma troppo impegnato negli affari secolari e, per questo, negligente nella lettura della Sacra Pagina: «Che cosa è la Sacra Scrittura, se non una lettera di Dio alla sua creatura?» con quella celebre esortazione Disce cor Dei in verbis Dei (Cf Epist. V, 46). Per non dimenticare quanto anche San Girolamo ci ha appena detto ieri nel suo Prologo al Commento del Profeta Isaia (seconda lezione dell'Ufficio delle Letture): «l'ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo». La Parola di Dio, ruminata nel segreto della propria anima, annunciata e riletta nella Chiesa, comunità viva edificata sul fondamento degli Apostoli e dei loro successori, diventa davvero il canale privilegiato per rinnovare l'incontro con il Signore e suscitare in noi la fede!

Servitori della carità. Voi siete invitati a manifestare la sollecitudine del Cristo servo riguardo a tutti, ma in particolare verso i poveri. I diaconi si identificano in modo tutto speciale con la carità. I poveri costituiscono una delle loro quotidiane preoccupazioni e l'oggetto della loro instancabile sollecitudine. Non si comprenderebbe un diacono che non fosse coinvolto personalmente nella solidarietà per i poveri. E Voi sapete bene, meglio di chiunque altro, carissimi Frati Cappuccini, che, oggi come non mai, vi sono molteplici forme di povertà cui solo il Cristo Buon Samaritano dell'umanità può corrispondere in pienezza attraverso i nostri occhi, le nostre mani, il nostro cuore.

Servitori della liturgia. Voi dovrete servire la liturgia in modo taleda educare l'assemblea alla vera natura della liturgia, luogo privilegiato dove Dio si rende presente in mezzo al suo popolo. La liturgia non è il luogo dove noi esprimiamo le nostre opinioni, meno ancora è il luogo dove celebriamo noi stessi. Evitiamo il peccato di Babele, quello di fare un nome a noi, anziché a Dio! (Cf Gn 11, 4). La liturgia è il posto dove noi incontriamo il Signore e riceviamo la sua vita. La liturgia non è nostra proprietà, ricordatelo sempre. Essa è il bene comune di tutta la Chiesa. Come diaconi, Voi sarete al suo servizio.

Ma la dimensione attiva del diaconato richiede di essere fecondata da quella precedente contemplativa. Bisogna perciò contemplare il Cristo servo il quale, come ricordavamo poc' anzi, «non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Il servizio di Gesù, come sappiamo, raggiunge la sua pienezza con la morte sulla croce, come a dire con il dono totale di sé, nell'umiltà della kènosis e dell' agàpe : «Io il Signore e il Maestro sono in mezzo a voi come colui che serve» (Lc 22,27). In Gesù, Dio stesso si è fatto piccolo bambino, fragile nel presepe, vulnerabile sulla croce, infinitamente umile nell'Eucarestia. Gesù ci invita a venire a lui: «Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi … prendete il mio giogo sopra di voi. Imparate da me che sono mite e umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,29). Divenire suoi discepoli. Mettersi alla sua scuola per apprendere da lui la dolcezza e l'umiltà del cuore.
Sì, il cuore. Ciò che vi è di più profondo nell'uomo, ciò che motiva la sua azione, le sue decisioni. Il luogo dell'intelligenza e dell'amore, il luogo della volontà, il luogo delle decisioni. Ciò che abita nel più profondo del cuore di Cristo, ciò che motiva la sua azione, è dolcezza e umiltà. Dolcezza: è il contrario della violenza. Noi viviamo in un mondo violento. Violenza delle guerre, delle ingiustizie, ma anche delle immagini, delle relazioni, delle parole, perfino anche tra di noi credenti. Facciamo nostro il grido del profeta Abacuc, ascoltato nella prima lettura di oggi: «Fino a quando, Signore, implorerò aiuto e non ascolti, a te alzerò il grido: "violenza!" e non salvi?» (Ab 1,2), ma sentiamoci anche confortati dalla voce soave di Gesù, il Servo dolce che non spegne la fiamma vacillante, e che dice: «beati i miti perché erediteranno la terra» (Mt 5,5). L'umiltà, poi, è il contrario dell'orgoglio, dramma della nostra epoca. Nella nostra vita l'orgoglio è il vero ostacolo per incontrare Dio e il prossimo: «Anche dall'orgoglio salva il tuo servo / perché su di me non abbia potere/ allora sarò irreprensibile/ sarò puro dal grande peccato» (Sl 19,14). L'orgoglio isola. E isolando uccide.

Prima di concludere queste semplici riflessioni, giova ancora una volta lo sguardo a Frate Francesco, per cogliere la segreta dinamica che ha mantenute ben coese le tre dimensioni del suo stesso servizio diaconale appena citate (parola, carità e liturgia) e sentirci provocati dal suo esempio a meglio comprendere l'esortazione rivolta, nella seconda lettura, da San Paolo apostolo al suo discepolo Timoteo a: «ravvivare il dono di Dio che è in te mediante l'imposizione delle mie mani» (2Tm 1,6). Francesco visse la dinamica della spogliazione.
Frate Francesco "diacono" procedette asceticamente verso il suo Signore "di spogliazione in spogliazione". Una prima volta, a Roma, dinanzi alla basilica di San Pietro, per indossare i panni dei miseri e mangiare il loro cibo. Aveva fatto questo non per motivi religiosi, bensì per pure motivazioni sociali: volens miserias experiri, come scrive appunto l'autore della Vita brevior (Cf ivi, § 61) - recentemente scoperta dal medievista Jacques Dalarun - in un tempo in cui Innocenzo III aveva appena fondato l'Ospedale di Santo Spirito in Sassia. Pur se non avvenuta per motivazioni religiose – perché Francesco più che compatire e alleviare intende semplicemente condividere una condizione reale - questa prima spogliazione romana è da prendersi in seria considerazione, in quanto finalizzata ad un incontro. Francesco, praticamente, si metteva nei panni di un altro (i miseri, nella fattispecie) in una dinamica di spogliazione e di ritrovamento, che è quanto dire, di una dinamica di responsabilità. Difronte al proprio IO c'è sempre un altro, che va incontrato. Per incontralo, però, bisogna spogliarsi prima delle proprie sicurezze, del proprio IO. La spogliazione, più che la vestizione, diventerà così la chiave di lettura per capire come Francesco incontrava gli altri, perfino i nemici (primo fra tutti il padre, che quando lo incontrava lo malediceva), i briganti che lo bastoneranno e lasceranno mezzo morto (dinanzi a loro Francesco si era semplicemente e gioiosamente definito l'"araldo del Gran Re"), il Sultano musulmano Malik al-Kamil, nel corso della quinta crociata. Sempre nudo di sé, sempre disarmato dell'Io e delle armi materiali, l'Assisiate può incontrare, e incontra, può essere incontrato, ed è incontrato da tutti. Se prima non si incontra l'altro, non si può essere servitori della Parola, della Liturgia e della Carità: non si può essere diaconi!

Poi Francesco decise di spogliarsi completamente e di fronte a tutti, con quel gesto celeberrimo il cui significato profetico fu inteso solo dalla gente comune (quella stessa gente che coglierà anche la profumata genuinità del vostro servizio, carissimi Francesco, Giovanni, Italo e Sergio): fu, quella, non una vestizione da parte del vescovo, ma fu una spogliazione totale, una nudità, frutto di una libertà liberata dalla potenza della grazia divina, per seguire nudo il nudo Cristo e combattere nudo contro il nudo avversario. Dinanzi a questa spogliazione sulla pubblica piazza, quegli Assisiati, che prima, condividendo l'indignazione del padre, lo avevano considerato pazzo, ora cominciavano a "compatirlo" nel senso più vero del termine: cioè lo capiscono, e lo approvano.

E l'ultima spogliazione di Francesco – tra le altre della sua vita -  fu quella avvenuta prima di morire, a Santa Maria degli Angeli. Con gesto, direi quasi con pretesa, del tutto inusuali nel Medioevo. Come ci documenta il "memoriale" di Tommaso da Celano (Cf Vita seconda, cap. 163, FF nn. 804-810) Francesco chiede di essere deposto "nudo sulla terra nuda". Il significato di questo gesto va colto in ciò che accadde subito dopo. Francesco vuole che gli venisse letto un brano dal capitolo 13 del Vangelo di Giovanni: «prima della festa di Pasqua…». Il brano della lavanda dei piedi, quando Gesù «depose le vesti», cioè spogliò se stesso per amore dei suoi fino alla fine. Ecco allora il legame diretto tra la spogliazione di Gesù, in procinto di morire sulla croce, e la spogliazione di Francesco, anch'egli in procinto di morire con nel corpo le stimmate del Crocifisso Signore.
Francesco, che sempre si era spogliato di sé per incontrare, ora perché chiede di essere spogliato? Chi deve incontrare? Deve incontrare Dio. Perciò deve spogliarsi dei suoi meriti, cioè dell'umile abito di sacco: vuole spogliarsi per l'ultima volta del suo IO (pronome soggettivo) e rimanere solo con il ME (pronome oggettivo, o complemento). «Sono stato crocifisso con Cristo,e non vivo più io, ma Cristo vive in me», scrive l'Apostolo (Gal 2, 19-20).Così oraFrancesco. Egli vuole solo un Amore da ricevere; si ritiene solo Amore ricevuto. Ora Francesco è veramente povero, ed è veramente ricco. Perciò è felice e, da diacono, canta questo suo ultimo Vangelo dell'Amore ricevuto e da ricevere e – come si può capire dal Celano - cantando ricevette la morte.

Carissimi Francesco, Giovanni, Italo e Sergio, state per indossare gli abiti del diaconato. Rivestiteli sì, ma nella gloria della spogliazione religiosa e cappuccina. Spogliazione da sicurezza umana; spogliazione da difese; spogliazione dall'IO. Nessuna vergogna in questa gloriosa nudità, ma solo impegno ed onore: per far posto a Dio e ai fratelli nella propria vita, nudi del proprio IO, in quanto ci si sente amati da Dio (Adamo, il primo uomo, era nudo, quando si sentiva amato da Dio). Solo così potrete indossare gli abiti della diaconia del Cristo Signore e di Francesco suo diacono e araldo.
Le spogliazioni di Francesco siano anche per Voi il segreto della Vostra diaconia, che fin d'ora imploro feconda da Dio per intercessione di Maria l'umile serva del Signore e Madre nostra dolcissima, e così sia.

Ufficio comunicazioni socialiBari, 13 ottobre 2022

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