Commento al Vangelo
Domenica 27 ottobre
Liturgia: Sir 35, 17-17.20-22; Sal 33; 2Tm 4, 6-8.16-18; Lc 18, 9-14In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l'altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: "O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo".
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: "O Dio, abbi pietà di me peccatore".
Io vi dico: questi, a differenza dell'altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Nelle parabole precedenti si chiedevano cose (Lazzaro chiedeva di mangiare, la vedova chiedeva giustizia, i 10 lebbrosi chiedevano la guarigione); in questa il pubblicano chiede la remissione dei suoi peccati, che è la cosa essenziale; la sua preghiera è silenziosa perché sa che il Signore ascolta. Prima ancora, nel capitolo 15, Luca aveva raccolto le parabole della misericordia (la 99esima pecora, la moneta smarrita, il ritorno del figlio prodigo). Tutto è unito dal grande tema della fede - insieme all'insegnamento sulla preghiera - che mostra il rapporto giusto tra noi e Dio. Al contrario, c'è del demoniaco nell'accusa del fariseo che si esalta aggredendo l'altro che è più povero.
La preghiera è fatta di fede, mescolata all'umiltà. Senza la prima la preghiera si smorza, senza la seconda corrompe in presunzione e si fa peccato. La preghiera umile, propria del peccatore, lo restituisce giusto. Due tipi di uomini per due tipi di preghiera. La preghiera parte dal rapporto che abbiamo con Dio e coi fratelli e serve ad averne uno nuovo.
Confidare in se stessi è presumere. Il "giusto" è colui che dice: gli altri sono tutti sbagliati, io sono a posto, io mi salvo! Dei due uomini, uno è fariseo (vuol dire "separato") e l'altro è pubblicano (non religioso e collaborante con i romani).
Il fariseo. Come può rendere grazie per non essere come gli altri? Rende grazie del nulla, di ciò che non è. In realtà dice che gli altri sono nulla, niente al suo confronto. Annullando gli altri, annulla se stesso. E tratta Dio come una prostituta, perché pensa di guadagnarne il favore facendo più cose di quelle richieste: due digiuni la settimana, invece di uno al mese; paga la decima di quello che acquista, mentre era riservata al produttore. Non rende grazie per il dono di Dio, ma per quello che lui ha fatto per Dio. Il soggetto della sua preghiera non è Dio, ma l'io. La sua è una preghiera atea.
Il pubblicano. Neppure osa alzare gli occhi. Si batte il petto e si umilia. Invoca la pietà di Dio, la misericordia, l'amore, la compassione. Chiama Dio col nome giusto: una madre che non può non amare. E non giudica gli altri, gli basta sapere che lui è peccatore. Il primo parlava di sé e Dio doveva premiarlo; il secondo parla di un Dio che si fa attrarre: guarda alla mia miseria, tu che sei misericordia!
Quando si dice "la Chiesa dei poveri", si afferma che essa lo è non solo perché è la soccorritrice e la madre dei poveri, ma prima di tutto perché essa stessa è fatta "di" poveri, dove la miseria è innanzitutto la condizione dell'umanità che ha bisogno di essere salvata.
Mons Angelo Sceppacerca27 ottobre 2019