Riflessioni
Le domande che contano: Nascere nella morte?
Cosa possiamo sapere del futuro? Quello nostro, personale, dei nostri cari, ma anche del mondo che ci circonda? Il cristianesimo non solo sostiene di conoscere molte cose sul domani dell’uomo, della storia e del cosmo, ma ha proprio qui il cuore del suo messaggio. Vangelo, infatti, significa proprio una buona notizia per tutti, che la vita trionfa sulla morte, il significato sull’assurdo, la grazia sovrabbonda dove grande è stato il peccato, e l’uomo non va verso una catastrofe biologica chiamata morte, va verso una realizzazione piena. Anche il mondo, non va verso una fine drammatica, ma verso la fioritura totale dei germi che già da ora in esso stanno maturando. In una parola, il cristianesimo annuncia il Cielo (il Paradiso) come il punto dove tutto converge e si realizza, l’Inferno come la frustrazione assoluta creata dalla stessa libertà umana. Il cristianesimo promette la resurrezione dei morti e assicura la piena trasformazione di questo mondo materiale.
Lo scettico, però, ci chiede: da dove, voi cristiani, prendete questa sapienza, questa conoscenza su cose così decisive per il destino dell’uomo? Sono domande da sempre poste ai cristiani. Anche a San Pietro chiedevano: “Dov’è la promessa della sua venuta? Poiché da quando i padri si sono addormentati tutto rimane come all’inizio della creazione” (2Pt 3,4). E Pietro rispondeva: “Un giorno presso Dio è come mille anni e mille anni come un giorno solo. Il Signore non fa tardare la promessa, come pensano alcuni” (2Pt 3,8-9). La fede cristiana, dunque, dove attinge quanto dice di sapere intorno alla fine?
Il ricorso alla Parola di Dio, contenuta nella Sacra Scrittura, è quanto mai indispensabile, ma noi vogliamo ricercare le ragioni della speranza anche all’interno della storia, vissuta e meditata; vorremmo trovare all’interno stesso della vita umana le tracce del suo futuro. E questo perché in ciascuno di noi non c’è solo l’essere, ma anche il poter essere. Le affermazioni sul futuro vogliono rendere evidente, per quanto possibile, ciò che è implicito, nascosto e interno al presente quotidiano.
Dinanzi a queste domande non si sfugge. Le soluzioni sono solo due: o si nega il significato, o lo si afferma. O ci credi, o non ci credi. Crederci è aver fede nel futuro dell’uomo. Ma la fede si confronta anche con domande terribili e dinanzi alle quali non si può chiudere gli occhi: perché esiste il dolore di un bimbo innocente? Perché l’uomo soffre? Perché la morte? Quando si nega ogni significato e ogni speranza, è perché alla base ci sono queste domande irrisolte. E la stessa fede è tentata da queste domande.
Eppure, anche chi sceglie di non credere deve confrontarsi – al contrario – col significato, con i segni della speranza: la vita, l’amore, il sacrificio per gli altri, il perdono, la morte accettata come riconciliazione. Stavolta, è l’ateismo ad essere “tentato” dalla fede.
La fede è centrale nelle varie religioni. Si può dire che dove c’è religione, lì c’è speranza. E se questo vale per tutte le religioni, in modo particolare vale per il cristianesimo. Perché? Lo specifico del cristianesimo sta nel fatto che, rispetto alle altre religioni, esso annuncia che Dio stesso si è avvicinato alla nostra esistenza, ha abitato nelle nostre case, si è fatto carne, ha il nome di Gesù. I segni di questa presenza sono tutti nella vita di Gesù: per lui i peccati sono perdonati, i malati sono guariti, le tempeste sono placate, gli affamati sono saziati, gli spiriti immondi sono cacciati, la morte è vinta.
Se la Bibbia inizia con il paradiso della Genesi, non è tanto per dirci che noi abbiamo ormai perso per sempre quella condizione, ma per dirci in quale direzione dobbiamo procedere: il paradiso, la resurrezione, la vita di comunione con Dio ci è sempre dinanzi, come una promessa da raggiungere. Una promessa possibile proprio perché c’è la resurrezione di Gesù. Ecco perché l’ultimo libro della Bibbia è l’Apocalisse, ossia l’immagine della Chiesa che già sperimenta la novità, la vita, la felicità, la riconciliazione, la pace. Così scriveva un teologo: “La vera Genesi non è in principio, ma alla fine” (Ernst Bloch, Das Prinzip Hoffnung, II, 1628).
Se durante la vita ci rendiamo conto di poter realizzare solo in parte le nostre possibilità, qual’è il momento in cui - finalmente - si adempirà totalmente la nostra condizione? La fede cristiana ci dice che questo luogo esiste: nella morte l’uomo nasce totalmente, o meglio, finisce di nascere. Sembra – e per tanti lo è – una risposta assurda, perché di solito la morte è considerata la fine della vita, lo strappo dalle persone amate, la separazione dal nostro corpo. La morte è vissuta come un dolorosa e ultima separazione. Eppure come sarebbe diverso se imparassimo a vederla non come una fine, ma come un principio, come una meta raggiunta, come il luogo della nascita definitiva. Per comprenderlo dobbiamo considerare, nell’uomo, due linee esistenziali.
Da una parte – e questa è la linea biologica – l’uomo nasce, si sviluppa, matura, invecchia e muore. Secondo questa curva già da bambini si inizia a perdere qualcosa, fino alla morte. Tutta la vita può essere colta, così, come una morte a rate.
Ma d’altra parte nell’uomo c’è un’altra linea, opposta alla precedente, quella della persona che inizia con la nascita e progressivamente si sviluppa, cresce. L’uomo, vivendo, scopre man mano nuovi orizzonti, sviluppa l’intelligenza, si apre alla comunione e al dono di sé verso gli altri. Anzi, tanto più si apre agli altri, tanto più costruisce la propria persona.
Mentre la prima linea, quella biologica, si consuma progressivamente fino alla morte, l’altra, quella della persona, può crescere continuamente fino alla pienezza nella morte. E per questa crescita ogni occasione può essere un passo avanti, anche le crisi, i fallimenti, le malattie, le fragilità. Basta poco a comprendere come la vera vita dell’uomo è nella sua interiorità più che nei successi esteriori, nella salute o nel potere. E questa interiorità si apre, se lo vogliamo, su spazi sempre più aperti. Con altre parole lo scriveva san Paolo ai cristiani di Corinto: “Se anche il nostro uomo esteriore va in corruzione, il nostro uomo interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16).
La morte può essere paragonata alla nascita. Come il bambino, al momento del parto attraversa una grande crisi, così l’uomo nel momento della morte: è estremamente debole, agonizza, è strappato da questo mondo, eppure sta per entrare in un mondo più vasto di quello che si sta lasciando. E’ l’esperienza trasmessaci da tanti santi. Già un padre della Chiesa, s. Ignazio di Antiochia, vedeva la propria morte imminente come la nascita alla vera vita nell’unione stretta con Cristo: “Per me è meglio morire in Gesù Cristo che essere re dei confini della terra. Desidero colui che morì per noi. Desidero colui che per noi risuscitò. La mia partenza è già imminente… lasciatemi contemplare la luce pura; giunto là sarò veramente uomo”(S. Ignazio d’Antiochia, Ai Romani, 6, 1-2).
Sarebbe una maledizione per l’uomo vivere eternamente la vita biologica. Non morire sarebbe, come per la spiga, non giungere mai a maturazione.
BOX
Persino nelle canzonette…
Non hanno bisogno di tante spiegazioni. Basta leggere. Anzi, ascoltare. Che ogni vera espressione artistica racchiudesse le domande vere dell’uomo, lo sappiamo. Forse ci sorprende ancora ritrovarle persino nelle canzonette… Qualche esempio di testi di Renato Zero e dell’ultimo festival di Sanremo. Messaggi inattesi, ma benvenuti perché fanno pensare. E ce ne sarebbero ancora altre, molte altre. Come Pensa, di Fabrizio Moro, sempre a Sanremo, che rimanda alle figure di Falcone e Borsellino, ma che in fondo parla di coraggio e di speranza, ma sopratutto di amore per il prossimo. O come la Canzone fra le guerre di Antonella Ruggiero, dedicata ai bambini, vittime dell'odio degli uomini. Il brano colpisce forte: “Dormi qui non pensare bimbo mio, oggi è notte intorno a noi notte di guerra senza pietà. Mani qui vicino a te, bimbo mio piene d'odio contro di noi, piccolo mio non guardare. Come vorrei fuggire via, portandoti con me. Donarti la vita sì, la mia”.
Da “Il carrozzone” (Renato Zero, 1979)
Il carrozzone va avanti da sé, con le regine, i suoi fanti, i suoi re… Ridi buffone, per scaramanzia, così la morte va via. Musica, gente, cantate che poi uno alla volta si scende anche noi… Sotto a chi tocca… in doppiopetto blu, una mattina sei sceso anche tu! Bella la vita che se ne va… Tempo per piangere, no, non ce n’è, tutto continua anche senza di te..
Da “La vita è un dono” (Renato Zero, 2005)
Nessuno viene al mondo per sua scelta, non è questione di buona volontà. Non per meriti si nasce e non per colpa, non è un peccato che poi si sconterà. Combatte ognuno come ne è capace. Chi cerca nel suo cuore non si sbaglia. Hai voglia a dire che si vuole pace, noi stessi siamo il campo di battaglia. La vita è un dono legato a un respiro. Dovrebbe ringraziare chi si sente vivo. Ogni emozione che ancora ci sorprende, l'amore sempre diverso che la ragione non comprende…E se faremo un giorno l'inventario sapremo che per noi non c'è mai fine… Ogni emozione, ogni cosa è grazia, l'amore sempre diverso che in tutto l'universo spazia e dopo un viaggio che sembra senza senso, arriva fino a noi. L' amore che anche questa sera, dopo una vita intera, è con me, credimi, è con me.
Da “Nel perdono” (Albano, Sanremo 2007, testo di Renato Zero)
Ferma le mie mani, non combatto più; torno dove ieri mi lasciasti tu... sazio di dolore dimmi: guarirò? Dietro quale altare ti rincontrerò, la mia schiena urla e implora... Nel perdono la forza di un re, come un figlio oggi torno da te, cosi spoglio di vanità, del tuo sguardo sarò degno chissà? Di quel pane mi nutro anch'io in questo mondo che non è più il mio. (…) Nel perdono ci credo anch'io, mi abbandono fosse anche l'ultimo oblio. Nel perdono spera anche tu che quel cielo non si macchi mai più. E’ la vita che aspetta te in piedi, coraggio, salutiamo il re…
Da “Ti regalerò una rosa” (Cristicchi, Sanremo 2007)
Ti regalerò una rosa Una rosa rossa per dipingere ogni cosa Una rosa per ogni tua lacrima da consolare E una rosa per poterti amare… Mi chiamo Antonio e sono matto Sono nato nel '54 e vivo qui da quando ero bambino Credevo di parlare col demonio Così mi hanno chiuso quarant'anni dentro a un manicomio. (…) E mi stupisco se provo ancora un'emozione… Per la società dei sani siamo sempre stati spazzatura… Questa è malattia mentale e non esiste cura… La mia patologia è che son rimasto solo… Ricordo i pochi istanti in cui ci sentivamo vivi Non come le cartelle cliniche stipate negli archivi…
Don Angelo Sceppacerca15 marzo 2007